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I detective selvaggi

I detective selvaggi

«Anziché lo scrittore,» ha detto una volta Roberto Bolaño «mi sarebbe piaciuto fare il detective privato. Sicuramente sarei già morto. Sarei morto in Messico, a trenta, trentadue anni, sparato per strada, e sarebbe stata una morte simpatica e una vita simpatica». Simpatica, eppure segnata già dalla sconfitta e dalla follia, dissipata e bohémienne, esaltante e allucinata, dopata di sesso, poesia, marijuana e mezcal, è sicuramente la vita dei protagonisti di questo libro, che Enrique Vila-Matas ha descritto come «il viaggio infinito di uomini che furono giovani e disperati, ma non si annoiarono mai». "I detective selvaggi" è infatti il romanzo delle loro avventure, ed è quindi un romanzo di formazione; ma è anche un romanzo giallo nonché, come tutti quelli di Bolaño, un romanzo sul rapporto tra la finzione e la realtà. Un libro, ha scritto un critico messicano, «simile a uno stadio dove la gente entra ed e­sce in continuazione», e dove, come avviene in "2666", si incrociano e si aggrovigliano, spesso contraddicendosi, le «versioni» di un'infinità di personaggi (tutta gente che «on the wild side» non si è limitata a farci un giro): poetesse scomparse nel deserto del Sonora e puttane in fuga, ex scrittori di avanguardia e magnaccia imbufaliti, architetti vaneggianti e poliziotti corrotti, cameriere libidinose e poeti bisessuali, e poi avvocati, editori, neonazisti e alcolizzati. «Credo» ha affermato Bolaño «che il mio romanzo possegga tante letture quante sono le voci che contiene. Lo si può leggere come un'agonia. Lo si può leggere anche come un gioco».

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